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Feb. 21st, 2023 11:12 pm
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Fandom: Iliade, Mitologia Greca

Prompt: Un rifugio alla fine del mondo

È stato il pianto di Astianatte a svegliare Andromaca, anche se svegliare non sarebbe la parola giusta; piuttosto strappare dal limbo di esausto dormi-veglia che ormai per la donna ha sostituito il sonno. Nemmeno ricorda più l'ultima volta che ha dormito, che Ipno l'ha benedetta con un sonno lungo e ristoratore.

Stropicciandosi gli occhi impastati col dorso della mano, li socchiude nella penombra della camera da letto illuminata solo dai bracieri, guizzi di rosso nell'oscurità. L’aria è pesante. 

Meccanicamente allunga le braccia verso il bambino, lo stringe a sé senza dire nulla. Sono mesi che Astianatte dorme nel letto con lei, contro il parere delle altre donne, dei parenti e delle ancelle. Non è sicuro, dicono, non fa bene al bambino

Ma Andromaca li ignora, tutti perché senza almeno il figlioletto ad accoccolarsi contro di lei fino ad addormentarsi ci sarebbe solo un letto troppo grande e una metà vuota e fredda.

Astianatte singhiozza, col faccino tutto raggrinzito, e per un momento è tutto ciò che Andromaca riesce a sentire. "Shh," fa, "shhh". Stringe il bambino al seno e lo culla, il gesto automatico. Va tutto bene, mormora, mente, la mamma è qui, va tutto bene. Le parole escono per abitudine, una litania vuota a cui ha smesso di credere da tempo, ma che continua a ripetere. Del resto ad Astianatte basta ascoltare il suono della sua voce per calmarsi.

Pian piano il pianto si affievolisce, e Andromaca comincia a sentirli: urla in lontananza e rumori metallici. Poi schiocchi. Tonfi. Lo scalpiccio di centinaia di passi, di cuoio e pelle nuda su pietra.

Di nuovo un'ombra rossa invade la stanza in lampi. Andromaca arriccia il naso, l'aria che entra dall'unica finestra ha un odore strano, acre, non la lieve brezza marina a cui è abituata. Nemmeno l’odore della battaglia, del sudore e del sangue. È un odore diverso eppure familiare. Buttando le coperte di lato fruga nella memoria.

Lentamente, quasi in sogno, prende in braccio Astianatte e va alla finestra, con le gambe già deboli, e un gelo nella pancia. L'odore cresce d’intensità, sempre più forte, sempre più familiare, finché Andromaca non riesce a afferrare la memoria sensoriale corrispondente. Ricorda i sacrifici al tempio, il muggito prolungato dei buoi condotti all’altare, la legna secca nei bracieri di bronzo e il fumo che saliva a volte fino al soffitto.  

L’aria crepita, mentre fuori la notte si riempie di fiamme. 

Ad Andromaca si sciolgono le ginocchia. Cade in avanti, un braccio teso d’istinto a fermare la caduta. Le dita stringono il davanzale finché le nocche non diventano bianche. Sotto i piedi il pavimento ondeggia.

Dopo dieci anni il nemico è riuscito a penetrare le difese della città: Troia sta bruciando, lingue di fuoco che lambiscono le case. Nelle strade la gente si riversa alla rinfusa come le formiche quando un monello d’estate, seduto sui calcagni, stuzzica la loro tana.

Astianatte ricomincia a piangere, nascondendo il viso nel collo della madre. La bocca secca, Andromaca si riscuote. Deve pensare a suo figlio: se il nemico lo trovasse non avrebbe pietà. 

Delle ancelle stanno fuggendo nel cortile della grande casa, i corridoi del palazzo una confusione unica di gente che corre, urla, si urta, piange, cade, barcolla, si rialza;  domestici e figli e figlie di Priamo, tutti con i capelli arruffati e gli occhi persi, ancora gonfi di sonno. 

Andromaca li ignora, le facce che si mescolano nella penombra, e corre, Astianatte aggrappato al collo. Corre senza sapere dove andare, corridoio dopo corridoio, stanza dopo stanza. Sala dei banchetti. Tempietto. Salone. Girando a destra si imbocca nel cortile per andare nelle stanze di Deifobo. Appena più avanti a sinistra dormiva Cassandra. E due stanze più avanti gli appartamenti della regina Ecuba.. 

Andromaca corre.

Potrebbe rischiare di andare fuori, buttarsi a perdifiato giù dalla rocca, correre fino alle mura e da lì cercare di arrivare al mare; potrebbe riunirsi con altri Troiani e magari riuscire a prendere una nave, imbarcarsi per un’altra terra. 

Ma fuori il fuoco divampa per le strade che già brulicano di Achei, e la spiaggia è lontana. Se si gettasse nel dedalo di vie, Andromaca non andrebbe lontano. 

Meglio piuttosto rimanere nel palazzo, trovare una stanza e chiudersi dentro. Chiudersi dentro, barricare la porta e pregare gli dei. Un'idea fugace le balena in mente, mentre gira un angolo alla cieca, il clangore del bronzo che cresce d'intensità dietro di lei.

C'è un punto del palazzo dove una botola si apre su una scala di pietra ben costruita e immette in una stanza sotterranea. Vi si conserva il vino e il cibo d’estate quando altrimenti marcirebbe subito per il caldo eccessivo. Andromaca conosce bene la strada, l’ha percorsa più volte, accompagnando le domestiche o andando lei stessa a recuperare qualcosa dalla dispensa. 

Se almeno un dio ha pietà di loro, i soldati si preoccuperanno di saccheggiare altre ricchezze prima di pensare a otri di vino e formaggi.

Passa altri corridoi, premuta a ridosso della parete, nelle orecchie solo il pianto di Astianatte. 

Le fanno male le braccia e il fianco duole per la corsa.

Un nuovo cortile, il vecchio l’ulivo che re Priamo innaffia personalmente, destra, sinistra, sinistra, di nuovo destra, le urla si fanno più intense. Le pare di sentire la voce di Medesicasta, ma Andromaca non si ferma. Immagina spade di bronzo, mani che le strappano il bambino dal seno, la lama sulla carne tenera, il sangue, ed è sufficiente per non farla voltare.

Il peplo si impiglia tra le gambe nella corsa, la fa inciampare. Andromaca ruzzola in avanti, il dolore delle ginocchia contro la pietra le toglie il fiato. 

Gli occhi si riempiono di lacrime. Ma i passi incalzano, e non c’è tempo per piangere. Ingoia il dolore, barcollando si rimette in piedi. Con foga controlla che Astianatte non si sia fatto nulla, spostando i ciuffi della frangetta scura dalla fronte. Il bambino continua a piangere, ma per fortuna pare incolume.

Sospirando per un breve sollievo, Andromaca strappa il proprio vestito: il lieve lino  si lacera facilmente sotto le unghie.

Destra, sinistra, sinistra, i rumori giungono più ovattati ora. Ancora un corridoio.

Il legno scricchiola quando Andromaca afferra il pesante anello di ferro per aprire la botola, tirando con un braccio solo per non lasciar andare Astianatte. La spalla protesta, mentre il sudore cola dalla fronte e lungo la schiena. Dentro la botola c’è il buio. Anche nelle giornate più luminose bisogna scenderci con la lampada a olio per non rischiare di inciampare sulle scale e cadere o andare a sbattere contro qualche scaffale. 

Andromaca si ricorda di una stanza simile, una volta, tanti anni prima, nella casa di Eezione, una cripta dove non entrava mai nemmeno il più debole filo di luce; di come i suoi fratelli si sfidassero a passarci sempre più tempo, finché trascorrervi la notte non era diventato un vero e proprio rito di passaggio. 

Aggiustandosi Astianatte in braccio, tenta il primo passo nel vuoto. È breve, il piede nudo subito sostenuto dal primo scalino, poi un altro e un altro ancora. Passi brevi e rapidi, un braccio esteso a seguire la parete. Cerca di ricordare il numero dei gradini. Dodici. No, undici. Ne conta sempre uno in più. 

Un refolo le fa drizzare i peli sulla nuca—ottavo gradino, nono—e maledice di non poter chiudere la botola dall’interno. Dopotutto,  chi l’ha costruita non ha certo pensato che sarebbe mai potuto servire.

È troppo tardi per pensarci, ormai può solo pregare che nessuno pensi di cercare anche lì. Decimo gradino. Undicesimo. Una parte di lei ride di una simile fantasia. Non appena si accorgeranno che la vedova di Ettore e il figlioletto mancano all’appello ribalteranno il palazzo da cima a fondo. Ribalteranno la città. 

Ma se resistesse fino all’alba, allora sarebbe più facile orientarsi  e Andromaca saprebbe dove andare.

I rinnovati singhiozzi di Astianatte la strappano a simili fantasie. 

“Shh! Silenzio. Shhh,” ripete, un braccio ancora steso davanti a sé finché il palmo non sbatte contro il muro opposto. Per sua fortuna la stanza è piccola. 

Andromaca segue i contorni delle nicchie scavate nella parete, piccole, grandi giusto lo spazio per metterci le rondelle di formaggio. Il ginocchio urta qualcosa, una forma bombata: forse un’anfora dimenticata. Si ritrova a domandarsi brevemente se contenga olio o vino, come se potesse importare ancora qualcosa.

All’angolo della stanza si lascia cadere. I polpacci bruciano per la corsa, le viene da vomitare, e ogni battito del cuore risuona così forte che è solo questione di tempo prima che i soldati sentano. Se non li attirerà prima il pianto del bambino. 

Gentilmente, nell’oscurità più totale, Andromaca lo fa saltellare appena su e giù, mormorando l’abituale ninna-nanna a fil di voce. "Shh. Dormi. Shh."

Il bambino trema nella celletta, la pietra umida e fredda contro la pelle nuda. Dentro di sé Andromaca si rimprovera, pensa  che avrebbe dovuto portare con sé almeno uno scialle con cui ripararsi. Invece avvolge di più Astianatte tra le braccia, invitandolo di nuovo a dormire. Gli preme appena una mano sulla piccola bocca per soffocare il pianto senza smettere di cullarlo. 

Qualcosa zampetta sul dorso della sua mano, lieve, ma sufficiente a farla sobbalzare. No, è solo un ragno. Cammina un poco sul polso di Andromaca prima di saltare sulla coscia e infine correre via. 

L'attesa è snervante, il buio che dilata ogni battito in un'eternità, nulla da fare se non aspettare e pregare. A fior di labbra recita tutti gli inni e le odi che conosce, snocciolando un dio dopo l’altro. Prega la saggia Atena e la sempre-vergine Artemide e Apollo dall’arco d’argento. Invoca Latona che protegge le madri e Afrodite dal dolce sorriso. Chiama la spada di Ares ed Era, regina di tutti gli dei.  

Da sopra la testa si sente rumore di passi. Poi voci, grida in una lingua e un accento che le fa gelare il sangue nelle vene. Disturbato nel suo sonno agitato, Astianatte si agita in grembo. 

Altri passi. Una risata sguaiata e crudele. Andromaca si rannicchia ulteriormente nel suo angolo e se potesse si fonderebbe con la parete. Ma la parete rimane di solida pietra e lei è un topo in trappola.

Poi Astianatte ricomincia a piangere.

***

Il sole del primo pomeriggio filtra tra le colonne del tempietto, solletica le palpebre di Andromaca finché non le schiude da un sonno breve e superficiale. I rimasugli del sogno che non era un sogno si accumulano attorno al cuore, lo premono finché lacrime non spillano dagli occhi.

Per un attimo ha creduto di essere tornata a Troia, a quella notte il cui ricordo ancora la tormenta. Nelle narici sente l’odore del sangue. Nelle orecchie risuona  il clangore delle spade. 

Le braccia sono ancora piegate come a reggere il peso di un bambino, nel loro spazio un fantasma. Astianatte riposa a Troia, un corpicino martoriato sepolto in un minuscolo tumulo scavata di notte, di nascosto e in fretta e furia. 

Ogni giorno Andromaca prega che almeno padre e figlio si siano ritrovati fra le ombre dell’Ade, che anche nel Regno dei Morti Astianatte abbia qualcuno che si prenda cura di lui.

Asciugandosi il viso con l’orlo della veste, la donna si aggrappa al basamento dell’altare per alzarsi e una risata amara sboccia nel petto al pensiero di doversi appellare all’aiuto della famiglia di chi le ha causato tanti dolori. 

Ma re Peleo ha fama di essere un sovrano giusto, un uomo saggio e pio, e di certo proteggerà chi è sangue del suo sangue, quel bambino che Andromaca ha avuto da Neottolemo. Molosso. L’unico figlio che le rimane, amatissimo. 

La donna l’ha mandato di nascosto a casa di amici con la complicità di un’ancella, per sottrarlo alla furia della principessa Ermione.

Le mani giunte fino a stritolare le dita e la fronte contro il freddo marmo, Andromaca prega. Che i messaggeri raggiungano presto Farsalo. Che re Peleo risponda all’appello. Che questa volta le cose vadano diversamente.

Andranno diversamente. Andromaca non ha intenzione di seppellire un altro figlio. Giura: dovesse morire, Molosso vivrà. 

Gli dei glielo devono.


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