CRISALIDE OSSEA
Feb. 21st, 2023 01:03 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Fandom: The Locked Tomb, Harrow la Nona
Prompt: Un rifugio alla fine del mondo
Ti sei rifugiata in un bel bozzolo d'ossa, cara Harrowhark, la Veneranda Figlia della Nona Casa, nuova Santa del Signore Imperituro, Lord John Gaius, Supremo Imperatore dell’Universo, Nostro Salvatore eccetera, eccetera.
Le tue adorate ossa, amate, fedeli, forse sono davvero tue, estratte da uno scheletro che comunque si rigenera, e ti ci sei imbozzolata dentro per bene come un bruco.
Magari pensi di riemergere farfalla, dopo un sonnellino di qualche giorno o mese, finalmente littore completo, non l'errore che sei, e nemmeno sai bene che cosa sei. Sai cosa non sei, però. Non sei un littore. Non sei quello che saresti dovuta essere fino dalla nascita. Non sei quello per cui hai lasciato la Nona Casa.
Non sei quello per cui altri sono morti per te.
Peccato che G-Ortus Nigead avesse occhi così anonimi, di quel marrone fangoso che quasi si può confondere col nero dei tuoi, così non ti basta guardarti allo specchio per avere conferma che una parte della sua anima continui davvero a vivere in te; che possa difendere il tuo corpo quando lotti nel Fiume, che in caso di necessità impugnerà la spada e muoverà i tuoi arti come una marionetta.
Non c'è molto spazio in questa tua costruzione, nessuna sorpresa, e non per mancanza di tue capacità con la materia di base. Con le ossa ora potresti anche costruirci un palazzo più grande del Drearburh. Non guardarmi così, sappiamo entramb* che è la verità.
Molto più banalmente, hai dovuto limitare le dimensioni per non farti notare—un ammasso di costole, vertebre e femori tutto raggrumato in un angolo della stazione dopo un po' salterebbe all'occhio.
Per fortuna il Mithraeum è grande, di sicuro impiegheranno un po' di tempo a trovarti, sebbene a bordo ci sia un littore che ha giurato di ucciderti—per quale reale motivazione ancora non è chiaro— e ti fiuta come un lupo con la sua preda. Ti ha tolto il sonno, quel poco che ti aveva lasciato il condividere l’alloggio con la necromante Principessa di Ida. Le lettere di una te passata dicono che è tua alleata, ma dubiti di poterti fidare persino di te stessa.
Soprattutto perché Ianthe Tridentarius, OttavaSanta al servizio del Re Imperituro, è una littrice completa. Con un braccio che non funziona come dovrebbe e in generale ancora alle prime armi, ma una littrice completa.
Ti costringi a respirare. A calmare i battiti di un cuore che va troppo veloce. Dentro. Fuori. Dentro. Fuori. Entra ossigeno. Esce anidride carbonica.
Dentro.
Fuori.
Al petto stringi una spada. Vorresti poter dire di non sapere, di non ricordare di averla portata con te, ma mentiresti. Non ti separi mai da quella spada, uno spadone a due mani, grande, troppo grande per te, che ti curvi sotto il tuo peso e nemmeno riusciresti a sollevarlo se non fosse per l’esoscheletro di ossa che ti sei costruita. Una voce in un remotissimo angolo della mente grida che non è quella la soluzione, ma il grido viene come da sott’acqua ed è presto dimenticato.
Non riesci a immaginarti di separarti da quella spada e allora ci dormi insieme, la abbracci come un letale orsacchiotto, quasi che in caso di attacco la potessi usare per difenderti.
Idea adorabile la tua quanto ridicola. Se anche riuscissi a sollevarla e, una volta sollevata, mollassi un fendente, scopriresti che una lama col filo smussato può fare un danno ben limitato. Succede a una lama quando non viene curata, lucidata, oliata e affilata con amore e regolarità.
Ma la si può sempre dare in testa al nemico di turno.
Dentro ridi all’assurdità di una tale immagine.
Accarezzi piano le ossa: sono ruvide sotto i tuoi polpastrelli. Ne senti la porosità, la consistenza, carezzandole con un gesto quasi d’amore. Ne inspiri l’odore, quel sentore come di polvere che ti riporta alla Nona, agli scheletri che lavorano negli orti o in biblioteca, alle funzioni lunghe ore nel tempio.
Prego per il sepolcro, che resti sigillato in eterno
Le hai modellate come un bozzolo di spine, nella sciocca idea che questo possa fermare Santi con diecimila anni di esperienza sulle spalle. Finora se riuscita a fuggire, ma non hai idea di quanto ancora potrai resistere.
Il fatto è, cara Harrowhark la No—pardon, la Prima—, il fatto è che non vuoi morire. Correzione. Non puoi morire. Non ti è permesso. Non con la colpa che porti sulle spalle. Non con quello che hanno fatto i tuoi genitori. Non dopo che…
Una fitta al cervello. Una stretta al petto. Si capisce. Dopotutto tu non sei più solo tu, e devi ancora digerire ciò che hai consumato. Lo senti, che fa l'altalena nello stomaco, va su e giù, giù e su, per un pasto che non avresti mai voluto mangiare. Sei stata costretta, non sei certo come Ianthe.
Lei il suo paladino se lo è pappato senza battere ciglio, il povero Babs. Mangiato e digerito anima e corpo.
A volte pensi che dovresti essere come la Tridentarius, che avresti meno problemi. A quest’ora saresti un littore completo se fossi come Ianthe.
Ma non lo sei.
A te Gid—Ortus è rimasto bloccato nella pancia, un peso incandescente lì a metà strada. Accarezzi l’idea di infilarti un dito in gola. Subito dopo la scarti, ha vomitato già abbastanza per dieci vite intere, e opti per raggomitolarti ulteriormente. Incroci le braccia sul ventre in un gesto infantile, come se bastasse quello a far passare il dolore. È il simulacro di un abbraccio. L’ultima volta che ne hai ricevuto uno, uno vero è stato… a dire il vero non ricordi. Presso la Nona Casa l’affetto si racchiude in gesti infinitamente più piccoli di un abbraccio, nello sfiorare di una veste, in uno sguardo in cui potevi cogliere un’ombra di orgoglio, in una mano che correggeva la tua postura.
Ortus Nigead mai si sarebbe azzardato ad abbracciare la Veneranda Figlia, a meno che non glielo avessi ordinato, e anche allora sarebbe stata una cosa goffa e veloce. Avrebbe avuto paura di romperti, scricciolo pelle e ossa—ossa! Divertente!—che sei.
Capita, nella follia del dormiveglia, che sia il Corpo a stringersi a te. Senti le sue braccia avvolgersi attorno alla tua vita, il mento appuntito che si posa sulla cima della tua testa, le gambe che si intrecciano alle tue. Non osi respirare allora, per una speranza che è anche terrore, e rimani immobile, in quella paralisi notturna finché l’illusione non si scioglie.
E anche lì è solo aria.
Così ti avvolgi nelle ossa, così pulite, spigolose, semplici. Ancora non capisci perché gli altri nutrano tutto questo interesse nella carne. No, a te bastano le ossa. Da una falangetta può costruire delle braccia, un torso, tutto un corpo, ti puoi accoccolare nella sua sicurezza, ed è sempre meglio di nulla.
Il mal di pancia comunque non si placa. Potrebbe anche essere colpa del cibo sulla stazione spaziale, troppo intenso, troppo speziato. Hai il vago sentore che dopo diecimila anni ci si assuefi anche ai sapori più forti, il che porta a un uso sempre maggiore di spezie.
Ma probabilmente anni passati a ingollare cibi senza alcuna traccia di condimento hanno reso le tue papille gustative così sensibili che ora ogni nuovo sapore rasenta un’insopportabile estasi dei sensi.
Dietro i denti e sul retro del palato hai ancora il gusto dei biscotti alla cannella che Dio ti ha offerto durante l’ultimo incontro e che tu hai dovuto educatamente accettare, sebbene il tutto sia avvenuto ormai tre giorni fa. Ti è rimasto in gola.
Anche il dentifricio è troppo forte, una pasta che riempie la bocca di freddo—menta—e diventa solo un nuovo sapore di cui vorresti al più presto liberarti.
È Dio ad insistere perché continui a lavarti i denti, poco importa che tu possa riparare ogni carie giusto pensandolo vagamente.
I sapori ti fanno sentire viva e, paradossalmente, è l’ultima cosa che vorresti. Ma viva sei e viva devi rimanere. Perché hai una missione. Perché ti sei spinta troppo oltre. Perché—
Ti chiedi chi sarà a trovarti per primo. A dover scegliere, spereresti in Mercymorn, così, a sensazione. Borbotta e ti tratta come una poppante, ma ci puoi convivere. Accetteresti anche Augustine. Sarebbe persino meglio. Se si trattasse di Ianthe l’umiliazione diventerebbe tale da farti accarezzare l’idea di buttarti nel vuoto cosmico—in mancanza di una Bestia Resurrezionale a portata di mano—e tanti saluti.
Non escludi nemmeno la possibilità che sia Dio a bussare al tuo rifugio. Ti chiedi se ne sarebbe più divertito o deluso.
Oppure finirà di nuovo con Gi-Ortus Primo che sbriciola ogni tua barriera. Sei decisamente propensa verso quest’ultima ipotesi. A conti fatti è davvero la più credibile.
Le mani scivolano a stringere l’elsa della spada—non è così che si tiene una spada a due mani, ma dettagli—e di nuovo ti illudi che possa servire a qualcosa in caso di attacco. Fortunatamente la follia è di breve durata. Ortus il Primo, Santo della Pazienza, Terzo Santo al servizio del Re Imperituro, farebbe in tempo a ucciderti cinque volte prima che tu riesca a menare anche solo un fendente. Utilizzare l’abbondanza di materia prima con cui sei tanto abile è un piano decisamente più fattibile. Inspiri. Espiri. Provi a figurarti il littore, immaginarti il corpo fino al più minuzioso dettaglio, e decidere dove sarebbe meglio colpire.
Gli occhi, di sicuro, sono sempre un buon punto d’inizio. Ti darebbero quei due, tre secondi di vantaggio per progettare la tua prossima mossa; dove con “prossima mossa” non escludi la possibilità di dartela a gambe levate fino a incrociare un littore più benevolo.
Oppure la carotide. No, sciocchezza, Ortus la riparerebbe prima ancora di accorgersi del danno. Se riuscissi a fargli respirare un poco di polvere d’osso allora sarebbe facile agire dall’interno. Anche lì però il danno dovrebbe essere abbastanza rapido e intenso da impedire una guarigione immediata.
Sempre che riuscissi col punto uno, si intende.
Non nutri molte speranze in proposito. Un bitorzolo d’osso ti scava nella schiena ma non ti sottrai, anzi quasi cerchi il dolore. Sei convinta di meritarlo, così ci premi contro ancora di più, in prossimità della tua vertebra lombare L4, finché un lieve pizzicore non scende giù fino al coccige. Devi aver sfiorato un nervo.
Spostandoti appena—ora lo spuntone preme sulla S2—tendi le orecchie e i sensi: ancora nessun rumore né cenno della lenta energia thalergica dei littori. Ti concedi il lusso di un sospiro, di rilassare i nervi per il battito delle tue ciglia. Magari pure due battiti. Anzi tre.
Quattro. Cinque. Sei.
Al settimo hai la granitica certezza che la prossima cosa che sentirai sarà il tuo riparo andare in frantumi in una miriade di schegge. Ma non succede. Non ci sono altri battiti di cuore, altri respiri nei polmoni, altri pensieri, sangue nelle vene, stomaci intenti a digerire cibi nel raggio di metri e metri, nessun alto se non te.
Otto. Nove. Dieci.
Ci siete solo tu e le tue ossa.
Non durerà a lungo. Sei troppo cinica per sperare altrimenti, ma è già più di quanto osassi chiedere.
Undici. Dodici. Tredici.
Sei sola in questo angolo del Mithraeum, sola nella vastità incommensurabile dello spazio, solo con stelle deboli e pianeti morenti. Non pensi di essere mai stata più lontana dalla Nona come lo sei ora. Sei sola con le tue illusioni, la tua pazzia, i tuoi ricordi, i tuoi rimpianti e desideri, la tua nostalgia.
Quattordici. Quindici. Sedici.
Inspiri. Espiri. Un altro battito di ciglia. Stringi il bozzolo appena di più attorno a te.
E per un istante sei in pace.
Prompt: Un rifugio alla fine del mondo
Ti sei rifugiata in un bel bozzolo d'ossa, cara Harrowhark, la Veneranda Figlia della Nona Casa, nuova Santa del Signore Imperituro, Lord John Gaius, Supremo Imperatore dell’Universo, Nostro Salvatore eccetera, eccetera.
Le tue adorate ossa, amate, fedeli, forse sono davvero tue, estratte da uno scheletro che comunque si rigenera, e ti ci sei imbozzolata dentro per bene come un bruco.
Magari pensi di riemergere farfalla, dopo un sonnellino di qualche giorno o mese, finalmente littore completo, non l'errore che sei, e nemmeno sai bene che cosa sei. Sai cosa non sei, però. Non sei un littore. Non sei quello che saresti dovuta essere fino dalla nascita. Non sei quello per cui hai lasciato la Nona Casa.
Non sei quello per cui altri sono morti per te.
Peccato che G-Ortus Nigead avesse occhi così anonimi, di quel marrone fangoso che quasi si può confondere col nero dei tuoi, così non ti basta guardarti allo specchio per avere conferma che una parte della sua anima continui davvero a vivere in te; che possa difendere il tuo corpo quando lotti nel Fiume, che in caso di necessità impugnerà la spada e muoverà i tuoi arti come una marionetta.
Non c'è molto spazio in questa tua costruzione, nessuna sorpresa, e non per mancanza di tue capacità con la materia di base. Con le ossa ora potresti anche costruirci un palazzo più grande del Drearburh. Non guardarmi così, sappiamo entramb* che è la verità.
Molto più banalmente, hai dovuto limitare le dimensioni per non farti notare—un ammasso di costole, vertebre e femori tutto raggrumato in un angolo della stazione dopo un po' salterebbe all'occhio.
Per fortuna il Mithraeum è grande, di sicuro impiegheranno un po' di tempo a trovarti, sebbene a bordo ci sia un littore che ha giurato di ucciderti—per quale reale motivazione ancora non è chiaro— e ti fiuta come un lupo con la sua preda. Ti ha tolto il sonno, quel poco che ti aveva lasciato il condividere l’alloggio con la necromante Principessa di Ida. Le lettere di una te passata dicono che è tua alleata, ma dubiti di poterti fidare persino di te stessa.
Soprattutto perché Ianthe Tridentarius, OttavaSanta al servizio del Re Imperituro, è una littrice completa. Con un braccio che non funziona come dovrebbe e in generale ancora alle prime armi, ma una littrice completa.
Sobbalzi. Ogni tanto qualcosa guizza nella coda dell'occhio e già il sistema simpatico si attiva. Il tuo cuore accelera i battiti, pompa sangue a irrorare arti e cervello per la lotta imminente. La pressione sale. I canali polmonari si dilatano. Le surrenali rilasciano adrenalina. Quei pochi muscoli che ti ritrovi si contraggono.
Già immagini una mano pronta a chiudersi attorno al collo, premere sulla carotide; un pugnale che si conficca nella pancia, attraversa la pelle, strato di muscoli—decisamente sottile nel tuo caso—e trapassa l’intestino da parte a parte.
Ti costringi a respirare. A calmare i battiti di un cuore che va troppo veloce. Dentro. Fuori. Dentro. Fuori. Entra ossigeno. Esce anidride carbonica.
Dentro.
Fuori.
Al petto stringi una spada. Vorresti poter dire di non sapere, di non ricordare di averla portata con te, ma mentiresti. Non ti separi mai da quella spada, uno spadone a due mani, grande, troppo grande per te, che ti curvi sotto il tuo peso e nemmeno riusciresti a sollevarlo se non fosse per l’esoscheletro di ossa che ti sei costruita. Una voce in un remotissimo angolo della mente grida che non è quella la soluzione, ma il grido viene come da sott’acqua ed è presto dimenticato.
Non riesci a immaginarti di separarti da quella spada e allora ci dormi insieme, la abbracci come un letale orsacchiotto, quasi che in caso di attacco la potessi usare per difenderti.
Idea adorabile la tua quanto ridicola. Se anche riuscissi a sollevarla e, una volta sollevata, mollassi un fendente, scopriresti che una lama col filo smussato può fare un danno ben limitato. Succede a una lama quando non viene curata, lucidata, oliata e affilata con amore e regolarità.
Ma la si può sempre dare in testa al nemico di turno.
Dentro ridi all’assurdità di una tale immagine.
Accarezzi piano le ossa: sono ruvide sotto i tuoi polpastrelli. Ne senti la porosità, la consistenza, carezzandole con un gesto quasi d’amore. Ne inspiri l’odore, quel sentore come di polvere che ti riporta alla Nona, agli scheletri che lavorano negli orti o in biblioteca, alle funzioni lunghe ore nel tempio.
Prego per il sepolcro, che resti sigillato in eterno
Le hai modellate come un bozzolo di spine, nella sciocca idea che questo possa fermare Santi con diecimila anni di esperienza sulle spalle. Finora se riuscita a fuggire, ma non hai idea di quanto ancora potrai resistere.
Il fatto è, cara Harrowhark la No—pardon, la Prima—, il fatto è che non vuoi morire. Correzione. Non puoi morire. Non ti è permesso. Non con la colpa che porti sulle spalle. Non con quello che hanno fatto i tuoi genitori. Non dopo che…
Una fitta al cervello. Una stretta al petto. Si capisce. Dopotutto tu non sei più solo tu, e devi ancora digerire ciò che hai consumato. Lo senti, che fa l'altalena nello stomaco, va su e giù, giù e su, per un pasto che non avresti mai voluto mangiare. Sei stata costretta, non sei certo come Ianthe.
Lei il suo paladino se lo è pappato senza battere ciglio, il povero Babs. Mangiato e digerito anima e corpo.
A volte pensi che dovresti essere come la Tridentarius, che avresti meno problemi. A quest’ora saresti un littore completo se fossi come Ianthe.
Ma non lo sei.
A te Gid—Ortus è rimasto bloccato nella pancia, un peso incandescente lì a metà strada. Accarezzi l’idea di infilarti un dito in gola. Subito dopo la scarti, ha vomitato già abbastanza per dieci vite intere, e opti per raggomitolarti ulteriormente. Incroci le braccia sul ventre in un gesto infantile, come se bastasse quello a far passare il dolore. È il simulacro di un abbraccio. L’ultima volta che ne hai ricevuto uno, uno vero è stato… a dire il vero non ricordi. Presso la Nona Casa l’affetto si racchiude in gesti infinitamente più piccoli di un abbraccio, nello sfiorare di una veste, in uno sguardo in cui potevi cogliere un’ombra di orgoglio, in una mano che correggeva la tua postura.
Ortus Nigead mai si sarebbe azzardato ad abbracciare la Veneranda Figlia, a meno che non glielo avessi ordinato, e anche allora sarebbe stata una cosa goffa e veloce. Avrebbe avuto paura di romperti, scricciolo pelle e ossa—ossa! Divertente!—che sei.
Capita, nella follia del dormiveglia, che sia il Corpo a stringersi a te. Senti le sue braccia avvolgersi attorno alla tua vita, il mento appuntito che si posa sulla cima della tua testa, le gambe che si intrecciano alle tue. Non osi respirare allora, per una speranza che è anche terrore, e rimani immobile, in quella paralisi notturna finché l’illusione non si scioglie.
E anche lì è solo aria.
Così ti avvolgi nelle ossa, così pulite, spigolose, semplici. Ancora non capisci perché gli altri nutrano tutto questo interesse nella carne. No, a te bastano le ossa. Da una falangetta può costruire delle braccia, un torso, tutto un corpo, ti puoi accoccolare nella sua sicurezza, ed è sempre meglio di nulla.
Il mal di pancia comunque non si placa. Potrebbe anche essere colpa del cibo sulla stazione spaziale, troppo intenso, troppo speziato. Hai il vago sentore che dopo diecimila anni ci si assuefi anche ai sapori più forti, il che porta a un uso sempre maggiore di spezie.
Ma probabilmente anni passati a ingollare cibi senza alcuna traccia di condimento hanno reso le tue papille gustative così sensibili che ora ogni nuovo sapore rasenta un’insopportabile estasi dei sensi.
Dietro i denti e sul retro del palato hai ancora il gusto dei biscotti alla cannella che Dio ti ha offerto durante l’ultimo incontro e che tu hai dovuto educatamente accettare, sebbene il tutto sia avvenuto ormai tre giorni fa. Ti è rimasto in gola.
Anche il dentifricio è troppo forte, una pasta che riempie la bocca di freddo—menta—e diventa solo un nuovo sapore di cui vorresti al più presto liberarti.
È Dio ad insistere perché continui a lavarti i denti, poco importa che tu possa riparare ogni carie giusto pensandolo vagamente.
I sapori ti fanno sentire viva e, paradossalmente, è l’ultima cosa che vorresti. Ma viva sei e viva devi rimanere. Perché hai una missione. Perché ti sei spinta troppo oltre. Perché—
Ti chiedi chi sarà a trovarti per primo. A dover scegliere, spereresti in Mercymorn, così, a sensazione. Borbotta e ti tratta come una poppante, ma ci puoi convivere. Accetteresti anche Augustine. Sarebbe persino meglio. Se si trattasse di Ianthe l’umiliazione diventerebbe tale da farti accarezzare l’idea di buttarti nel vuoto cosmico—in mancanza di una Bestia Resurrezionale a portata di mano—e tanti saluti.
Non escludi nemmeno la possibilità che sia Dio a bussare al tuo rifugio. Ti chiedi se ne sarebbe più divertito o deluso.
Oppure finirà di nuovo con Gi-Ortus Primo che sbriciola ogni tua barriera. Sei decisamente propensa verso quest’ultima ipotesi. A conti fatti è davvero la più credibile.
Le mani scivolano a stringere l’elsa della spada—non è così che si tiene una spada a due mani, ma dettagli—e di nuovo ti illudi che possa servire a qualcosa in caso di attacco. Fortunatamente la follia è di breve durata. Ortus il Primo, Santo della Pazienza, Terzo Santo al servizio del Re Imperituro, farebbe in tempo a ucciderti cinque volte prima che tu riesca a menare anche solo un fendente. Utilizzare l’abbondanza di materia prima con cui sei tanto abile è un piano decisamente più fattibile. Inspiri. Espiri. Provi a figurarti il littore, immaginarti il corpo fino al più minuzioso dettaglio, e decidere dove sarebbe meglio colpire.
Gli occhi, di sicuro, sono sempre un buon punto d’inizio. Ti darebbero quei due, tre secondi di vantaggio per progettare la tua prossima mossa; dove con “prossima mossa” non escludi la possibilità di dartela a gambe levate fino a incrociare un littore più benevolo.
Oppure la carotide. No, sciocchezza, Ortus la riparerebbe prima ancora di accorgersi del danno. Se riuscissi a fargli respirare un poco di polvere d’osso allora sarebbe facile agire dall’interno. Anche lì però il danno dovrebbe essere abbastanza rapido e intenso da impedire una guarigione immediata.
Sempre che riuscissi col punto uno, si intende.
Non nutri molte speranze in proposito. Un bitorzolo d’osso ti scava nella schiena ma non ti sottrai, anzi quasi cerchi il dolore. Sei convinta di meritarlo, così ci premi contro ancora di più, in prossimità della tua vertebra lombare L4, finché un lieve pizzicore non scende giù fino al coccige. Devi aver sfiorato un nervo.
Spostandoti appena—ora lo spuntone preme sulla S2—tendi le orecchie e i sensi: ancora nessun rumore né cenno della lenta energia thalergica dei littori. Ti concedi il lusso di un sospiro, di rilassare i nervi per il battito delle tue ciglia. Magari pure due battiti. Anzi tre.
Quattro. Cinque. Sei.
Al settimo hai la granitica certezza che la prossima cosa che sentirai sarà il tuo riparo andare in frantumi in una miriade di schegge. Ma non succede. Non ci sono altri battiti di cuore, altri respiri nei polmoni, altri pensieri, sangue nelle vene, stomaci intenti a digerire cibi nel raggio di metri e metri, nessun alto se non te.
Otto. Nove. Dieci.
Ci siete solo tu e le tue ossa.
Non durerà a lungo. Sei troppo cinica per sperare altrimenti, ma è già più di quanto osassi chiedere.
Undici. Dodici. Tredici.
Sei sola in questo angolo del Mithraeum, sola nella vastità incommensurabile dello spazio, solo con stelle deboli e pianeti morenti. Non pensi di essere mai stata più lontana dalla Nona come lo sei ora. Sei sola con le tue illusioni, la tua pazzia, i tuoi ricordi, i tuoi rimpianti e desideri, la tua nostalgia.
Quattordici. Quindici. Sedici.
Inspiri. Espiri. Un altro battito di ciglia. Stringi il bozzolo appena di più attorno a te.
E per un istante sei in pace.